Il ruolo del Nutrizionista è oggi assai complicato e non mi riferisco affatto al suo grado di competenza professionale, bensì alla sua capacità di saper instaurare un rapporto adeguato, genuino, costruttivo, utile con il proprio paziente.
Per quanto possa apparire banale la mia affermazione, nella realtà le cose sono complesse, per una serie di ragioni, più o meno evidenti, che fanno inclinare il percorso tutto in salita.
La conoscenza scientifica procede ad un ritmo serrato con una ramificazione delle competenze sempre più capillare: restare aggiornati in un campo così vasto, vi assicuro è davvero complicato. Ma siamo certi che correre su questa strada sia una operazione giusta e saggia per far bene il nostro lavoro? Un alto livello di competenza si raggiunge certamente con un approccio sistematico alle materie che appassionano il professionista, ma non sempre divorare saggi, nozioni, articoli scientifici, porta d'ufficio a far bene il nostro lavoro.
La Nutrizione, in particolare, presta facilmente il fianco ad un approccio estremamente quantitativo, dove le emozioni rischiano di essere relegate in un anfratto che poi, casomai, provvederemo a recuperare.
Facile quantificare un'obesità, una cachessia muscolare, una iperglicemia, semplice monitorare i cambiamenti clinici strumentali. Occuparsi di Nutrizione oggi è ben più facile di venti anni fa, fare Nutrizione oggi è ben più arduo di venti anni fa.
Un approccio radicale di tipo quantitativo lascia poco spazio ad interpretazioni a più ampio raggio, che seppur figlie dell'esperienza, dovrebbero essere sempre prese in considerazione nel rapporto umano Nutrizionista\Paziente.
La cultura scientifica Nutrizionale è sufficiente a garantire la corretta interpretazione della complessità clinico\psicologica del caso clinico al nostro cospetto? La gioia che provo quando ascolto certi pazienti, mi fa capire che ci sono scintille intuitive che devono assolutamente connettersi con il mio bagaglio culturale in ambito nutrizionale.
Attraverso l'ascolto posso avere qualche chance di successo, purché sia un ascolto profondo, vero, di sincera connessione emotiva, un ascolto che mi aiuti ad entrare in quel reticolo, così profondo, così vero. Umanizzare il rapporto Nutrizionista\Paziente è l'obiettivo principale di chi vuol fare bene il proprio lavoro. Onestà intellettuale impone di sottolineare che ciò non è sempre possibile: ci sono ascolti che lasciano gioia, soddisfazione profonda, ci sono ascolti che lasciano amarezza, consapevolezza dei miei limiti, malessere di un laccio che non siamo riusciti a ricongiungere.
Umanizzare è segno di rispetto, di attenzione, di voler far bene il proprio lavoro, con la consapevolezza che i numeri, per quanto nostri prodi alleati, non possono garantirci quell'alleanza terapeutica tanto ambita.
Rompere gli schemi di un classico protocollo nutrizionale può risultare funzionale alla causa: la stampella emotiva, può sostenere il mondo a volte, il mondo interiore, così grande e fragile che porta l'uomo a sorreggere la propria vita.
Quante ne ho viste di stampelle emotive, in venti anni, ne ho viste e ne vedo tutt'ora così tante, da aver capito che sono così utili al mio lavoro che se non avessi compreso la loro importanza, avrei fatto tanti danni, in primis come uomo. Le stampelle emotive sono gli equilibri insalubri che ogni Nutrizionista, se vuole, può leggere nell'incontro con il suo paziente. Le stampelle emotive non le troviamo nei numeri che illustrano magistralmente un caso clinico, non le troviamo in un referto ecografico, possiamo intravederle quando ci connettiamo emotivamente con i nostri Pazienti.
Uomini e donne che cercano aiuto, uomini e donne che spesso brancolano nel buio, perché davvero non sanno di quale aiuto hanno bisogno, uomini e donne che nascondono magistralmente quella stampella che se ben custodita, pur se dolorosa, li aiuta a sostenere il non detto.
Un appello ad umanizzare il rapporto Nutrizionista\Paziente, per tornare ad essere uomini prima di essere chiamati dottori, un titolo tanto pieno, quanto vuoto.
L’eccessiva medicalizzazione in ambito nutrizionale ha disumanizzato il nostro lavoro, lo ha così centrato sui numeri e sui protocolli che ha dimenticato l’attore principe del palcoscenico.
Il BMS, affonda le sue radici esattamente in questa visione: l'ascolto, quello vero, apre porte così profonde così luminose da porsi inevitabilmente in antitesi con un approccio puramente quantitativo.
Le due visioni cozzano e fanno così rumore quando si toccano da rendersi vicendevolmente incompatibili.
Nei primi incontri con i miei pazienti stresso un concetto che agli occhi dei miei interlocutori appare spesso, se non sempre, surreale quanto inadeguato: sollecito la necessità di non quantificare il cibo che andranno a consumare quando toccheranno con mano il BMS. Per quanto possa apparire strano, tale caposaldo va mantenuto fermo nei successivi incontri, con l’obiettivo di massimizzare i risultati e contemporaneamente dirigere la loro attenzione verso sentimenti e sensazioni più profonde, intime, perché gli effetti terapeutici del cibo possano essere così viscerali da venir percepiti nella quotidianità più silenziosa, spesso dannatamente silenziata da visioni modaiole pseudonarcisiste, colpevolmente orientate al profitto piuttosto che alla Salute.
Il BMS affonda le sue radici nell’umanizzazione del rapporto Nutrizionista\Paziente, da qui si è potuto fare un lavoro mastodontico nella creazione di quelle combinazioni alimentari più efficaci in precise condizioni fisiologiche, metaboliche e genetiche.
Chi crede che una combinazione alimentare non possa essere terapeutica ignora, per forza di cose, l’attenzione che viene posta nel curare il rapporto Nutrizionista\Paziente, quando quest’ultimo decide di prendere in mano la propria salute, ben conscio che il BMS non è una dieta, bensì un approccio innovativo in grado di rimettere al centro l'uomo.
L’ascolto vero porta ad un rapporto completamente nuovo tra Nutrizionista e Paziente: quest’ultimo percepisce il piacere viscerale, commovente di essere ascoltato per quello che è, non per la maschera che porta e che lo accompagna nelle relazioni interpersonali, tutte, nessuna esclusa.
Il piacere più grande del mio lavoro è vedere gli occhi dei miei Pazienti che si inumidiscono, leggere sui loro volti lo stupore per aver riassaporato quel vento leggero che si chiama ascolto. L'ascolto vero sposta montagne, le sposta come fossero castelli di sabbia, per creare un mondo nuovo fatto di rapporti sani e leggeri che credevamo relegati alla nostra infanzia.
Eppure quel mondo sono loro, siamo noi, che ci ascoltiamo regalandoci vicendevolmente il piacere della genuinità umana.
Confidenze intime di questo tipo, sono il segno degli anni che passano e che fanno apprezzare il mio lavoro per quello che davvero è e non per quello che gli altri vorrebbero che fosse.
Libertà di procedere su strade nuove, contro le consuetudini semplici che garantiscono certamente visibilità ma non daranno mai il piacere di toccare con mano il cuore degli uomini.
Umanizzare il mio lavoro è stato un obiettivo faticoso, certamente frutto di un lavoro interiore profondo e doloroso, colmo di fallimenti e successi che segnano i limiti dell’uomo che sono.
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