Se vogliamo prenderci cura di un disagio psichico, sia che esso provochi sono una sofferenza intima personale sia che sfoci in un comportamento disfunzionale, dobbiamo sempre ricordarci cos’è un disagio psichico.
Un disagio psichico non è esclusivamente una tara genetica o una disfunzionalità fisiologica. In alcuni casi le basi genetiche o fisiologiche saranno elementi importanti di una difficoltà psicologica, ma, al contrario di quello che vorrebbe il modello biomedico, non saranno mai l’unico e principale fattore di genesi e mantenimento di un disturbo psichico (con o senza risvolti comportamentali).
Contemporaneamente, un disturbo psichico non sarà nemmeno mai nemmeno il frutto della mera educazione, per quanto distorta essa possa essere.
Un’educazione terribile impatta sempre in una sensibilità particolare, e qua si inizia a percepire quello che chiamiamo un modello bio-psico-sociale della patologia: una lettura del fenomeno che prende in considerazione il bio (ad esempio genetica) psico (ad esempio un trauma come una violenza sessuale) sociale (ad esempio lettura sociale di quel determinato trauma, come il senso di colpa associato alla violenza sessuale subita).
Questa lettura complessa permette di cogliere appieno i vari fattori del disagio, ne testimonia l’unicità di ogni fenomeno, indica chiaramente cole la cura debba essere necessariamente pensata nei termini di equipe specialistica. Tuttavia, nel disagio psichico, questa lettura non esaurisce completamente la comprensione del fenomeno disagio psichico.
Per comprendere a fondo e curare al meglio un disagio psichico, non bisogna mai dimenticarne la sua natura adattiva.
Infatti, per quanto paradossale, il disagio psichico è sempre una soluzione adattiva per l’individuo che ne soffre, la migliore soluzione che una persona è riuscita a dare a delle proprie difficoltà di vita.
Alle volte il disagio si è sviluppato come tentativo automedicale di un disagio più profondo: ad esempio l’alcolismo per coprire una depressione potenzialmente devastante. Oppure “normalizzare” la violenza interpersonale che si subisce nelle relazioni per “salvare” il ricordo delle prime relazioni affettive traumatiche con genitori violenti, necessarie al mantenimento della propria sicurezza e auto-stima.
In ogni caso si può giungere alla comprensione di fenomeni adattivi personali dietro ogni disagio psichico.
I disagi psichici hanno sempre la caratteristica di essere dei tentativi (più o meno riusciti) di cura di problematiche più profonde e gravi (almeno così percepite dal soggetto).
Questo aspetto adattivo è fondamentale per due motivi principali (e molti altri ancora secondari):
1) È evidente che, se questo modello è vero, ogni fenomeno di disagio è unico ed individuale e, nello stesso tempo, ogni tentativo di cura deve essere personalizzato a partire dall’individualità unica e irripetibile del soggetto
2) Si può comprendere solo all’interno della conoscenza e della cura della persona in toto, nella sua storia e nella sua sensibilità, quindi senza poter prendere scorciatoie di cura che riguardino esclusivamente il sintomo o la malattia.
3) Non si può pensare di eliminare immediatamente il sintomo senza considerare il fatto che questo creerà nella persona uno squilibrio psicologico importante: la persona si troverà in alto mare, in balia delle sue problematiche più profonde, sprovvista del suo “salvagente patologico” e senza la capacità di nuotare, con il rischio reale di soccombere (ad esempio ad una frammentazione psichica); il soggetto facilmente sceglierà di tornare al proprio salvagente e smettere di curarsi.
Questo concetto, semplice ma che ben fa capire il fallimento di tanti tentativi di cura.
La consapevolezza che il disagio psichico, nelle sue forme intime o comportamentali, debba essere sempre visto come il tentativo che la persona ha messo in atto nella sua vita per trovare un equilibrio rispetto a problematiche (..percepite come..) più gravi, è fondamentale non solo per lo psicologo o lo psichiatra, ma per tutti quei professionisti che si cimentano nell’arte della cura, compresi i nutrizionisti.
Anche il nutrizionista deve avere ben chiaro che i suoi clienti gli presenteranno problematiche che, sino a quel momento della loro vita, in realtà sono state soluzioni a problemi percepiti come più difficili da affrontare.
Per cui è fondamentale che anche il nutrizionista, nel suo lavoro, si orienti alla cura della persona e non del sintomo, che comprenda i tempi dei suoi clienti, che ne rispetti le difficoltà, che lo aiuti gradualmente a trovare soluzioni più efficaci nella sua vita.
Può sembrare paradossale, ma per una persona obesa perdere peso può essere in realtà un problema: può portare a farlo ricontattare le sue fragilità, a rimettersi in gioco dal punto di vista affettivo e estetico, ecc…ecc..
Allo stesso modo levare alcool o junk food ad una persona può essere difficile se per lei queste abitudini compensavano carenze affettive.
Questo lavoro è possibile solo conoscendo la persona che si ha di fronte approfonditamente , “perdendo tempo” nell’anamnesi, “perdendo tempo” ad empatizzare e scoprire la realtà unica a cui si trovano di fronte.
Il processo di cura alla fine è proprio questo, “perdere tempo” per conoscere a fondo la persona nei suoi vissuti e significati, non focalizzarsi sul sintomo ma “perdere tempo” per scoprire chi abbiamo di fronte e capire come collaborare per trovare la (sua) migliore soluzione, altrimenti si rischia di realizzare la famosa battuta: “…l’operazione è andata perfettamente, il paziente è morto..”
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